Eroe moderno

Perché? Perché a volte si esita così tanto prima di fare un’azione che potrebbe cambiare la propria vita e quella di molti? Sicuramente non è ciò che ha fatto il signor Vito Fiorino, prima di fare una scelta che fu veramente importante per la vita di alcune persone. Non era un re, un principe o un VIP, ma la sua storia, purtroppo poco conosciuta, racchiude qualcosa di più prezioso dell’oro: bontà e coraggio. E ha tanto da insegnare.

“Ero in mare, con la mia barca, e la mia era una giornata come tutte le altre. Sino a quando urla atroci e strazianti giunsero dal mare aperto” racconta (ovviamente lo disse con parole diverse). La mia classe, le altre classi, ascoltavano attentamente quello che a prima vista può sembrare un racconto come tanti, ma che non lo è affatto ed è una dolorosa verità da non ignorare, quella di vite innocenti strappate alla vita.

Racconta Vito: “Erano ovviamente migranti, che fuggivano da una casa che non si poteva più chiamare casa. Li portai sulla mia barca, ma qualcuno di loro morì…”  Una triste storia, ma vera, che molti sperimentano sulla propria pelle…

“Fra di loro però c’era un ragazzo, che sopravvisse, e con cui strinsi amicizia. <E ci rincontrammo, dopo molti anni…”  Chissà che emozione!   Dev’essere stato splendido rincontrarlo, ma la precedente esperienza è stata sicuramente atroce, terribile…

Insomma, non è una storia allegra, ma c’è bisogno di più persone come Vito Fiorino e di meno guerre. Ma non bisogna fermarsi alle parole: ci vogliono fatti concreti.

Quindi, Vito Fiorino: grazie, grazie. Grazie mille.

ZECCARDI CATERINA 1A

La stella magica

Era un lunedì di marzo e avevo finito di fare i compiti; dissi a mia mamma che dovevo andare a calcio, lei annuì e io scesi giù in cantina a prendere la bicicletta ed andai a calcio.

Ad un certo punto sentii un grande rumore, mi girai e vidi un grande meteorite, all’inizio mi spaventai ma poi provai ad avvicinarmi. 

Il meteorite si era aperto a metà come un cocco e dentro c’era una stella molto luminosa. Non ci pensai neanche un secondo, la presi e la misi in tasca e subito andai a calcio sfrecciando come una Lamborghini. 

Arrivai a calcio in ritardo, entrai nello spogliatoio, mi misi le scarpe ed andai in campo, dove il mister baffuto disse:  “Adesso facciamo una partita, entrai subito nel primo tempo.

Mi accorsi che in partita ero migliorato nei passaggi, nel controllo palla e nel tiro all’inizio. Mi dissi :“Meglio così a fine partita sarò premiato“. Ma all’inizio del terzo tempo le mie gambe erano incontrollabili, i miei compagni provavano a fermarmi ma non ci riuscivano, sembravo impazzito.

Poi, finalmente, dopo tanti sforzi ero riuscito a tirare fuori la stella dalla tasca e la buttai in campo. Io ero  riuscito a prendere il controllo delle mie gambe, ma la stella aveva fatto un buco sotto terra. 

Un mio compagno vedendo tutto ciò urlò :“La prendo io!“, ma cadde nel buco. Era come se quella stella li  ipnotizzasse. Il mister intanto rimase imbambolato. Io però ero riuscito a riprendere la stella e corsi veloce, davanti agli occhi sbarrati dei miei compagni e del mister, nel punto dove era precedentemente caduto il meteorite.

Provai di rimetterla dentro e subito la stella si spense e il meteorite si chiuse, di conseguenza si sollevò dal terreno e scomparse nel cielo. Noi eravamo rimasti a bocca aperta e il mister provava a schiaffeggiarsi, perché pensava che fosse un sogno ma era tutta realtà. 

Nei successivi giorni vidi che al  telegiornale c’era una notizia che diceva : “Caduta meteorite in Italia e Grecia: circa 30i000 ipnotizzati.“ Il mio sguardo passò da contento ad impaurito, mi venne la pelle d’oca da quello che avevo letto.

Mi alzai subito dal divano e corsi verso la finestra la finestra e… vidi tanti ma tanti meteoriti in cielo e le persone che correvano da tutte le parti urlando. Rimasi traumatizzato. Poi uscii di casa, chiamami i miei amici e gli dissi di venire nella mia cantina per stare al sicuro. Tutti vennero  tranne Alessandro, lui era un ragazzo vivace e pieno di energie, ma quel giorno non si presentò. Così dissi ai miei amici di rimanere lì dove erano e io andai a casa di Alessandro.

Quando bussai alla porta nessuno osò parlare, allora continuai a bussare. Alla decima bussata decisi di aprire la porta con forza e solo dopo un paio di minuti ero riuscito ad aprirla e…trovai Alessandro con una benda alla bocca, lui mi fece un cenno come se mi volesse chiedere aiuto. Mi avvicinai a lui e la porta si chiuse all’improvviso Sbendai velocemente Alessandro e corremmo verso l’uscita della casa.

Intanto che stavamo ritornando nella mia cantina, dove c’erano i miei amici che mi stavano aspettavano, chiesi ad Alessandro che cos’era successo: lui non mi rispose allora gli feci di nuovo la domanda, ma invece di rispondermi aprì la mano e dentro c’era una stella molto più grande di quella che avevo trovato io, però era meno luminosa, dissi ad Alessandro di non metterla in tasca se no avrebbe perso il controllo delle sue gambe. Fortunatamente Alessandro mi ascoltò e proseguimmo la strada per arrivare alla mia cantina.

Quando arrivammo dissi tutto quello che era successo ai miei amici, mentre loro guardavano  la stella molto grande nelle mani di Alessandro.  Alessandro, vedendo gli amici che tremavano dalla paura, disse : “Ragazzi non abbiate paura, adesso troverò il modo di sbarazzarmene.” io urlando dissi di no e gli strappai la stella dalle mani. Poi andai in un piccolo angolo della cantina, dove tengo un computer che non uso da tanto tempo.

Avevo paura che il computer non si accendesse, visto che era rimasto tanto tempo fermo in una cantina, ma fortunatamente il computer si accese  ed andai subito  su Google a cercare qualcosa su quella stella, finché trovai una ricerca che diceva: “La stella di Kratos, una delle cose più malvage nella mitologia Greca.”

Il signor Kratos teneva la stella in un profondo buco sotto terra per nasconderla. Ad oggi la stella non si sa dov’è, ma gli scienziati hanno ipotizzato che la stella di Kratos potrebbe essere in questi due paesi: Italia e Grecia .

Cercai di tranquillizzarmi e di non andare nel panico, mi soffermai su una frase che diceva:  “Teneva la stella in un profondo buco sotto terra.”  provai a ricercare nel mio cervello un episodio simile, quando mi ricordai che la stella che avevo buttato in campo aveva fatto un profondo buco. Subito dopo chiusi il computer e dissi a i miei amici di andare al campo da calcio e tutti furono d’accordo con me. Prima però prendemmo gli ombrelli e, appena mettemmo  un piede fuori dalla cantina, un fulmine squarciò  tutti gli ombrelli. Noi non pensammo  neanche un secondo a ritornare in cantina e proseguimmo  la strada per arrivare al campo. 

Arrivati al campo il profondo buco c’era ancora, quindi provai a mettere la stella nel buco. I miei amici mi guardavano con degli occhi pieni di paura e io mi girai verso di loro per tranquillizzarli, ma appena mi girai il buco si chiuse e i meteoriti in cielo scomparvero; il temporale se ne andò ed apparve un grande arcobaleno.

Dopo un po’ di giorni vidi di nuovo il telegiornale e c’era una foto di me e dei miei amici. Preso dalla felicità andai  a vedere come era messo il campo, ma al posto del campo trovai un museo con scritto su un cartello il mio nome e quello dei miei amici. Feci un grande sorriso e me ne andai.

XHELESHI LEUNARD 1A

 

Dove sono?

Mi sono svegliato presto per andare a fare la foto, faccio colazione, indosso la divisa da calcio. Sono alto e basso un pò tutti e due, ho i capelli lunghi gialli e i miei occhi sono verde chiaro e la divisa da calcio è blu.

 Io e la mia famiglia andiamo a fare la foto allo stadio Bulgarelli. Entro a fare la foto nel campo con i miei compagni di calcio. 

 La foto ovviamente l’abbiamo fatta con il sole in faccia, riuscivo a malapena ad aprire gli occhi. Pensavo che dopo la foto avremo fatto qualcosa. Mi sentivo felice perché a pomeriggio avremo giocato contro il S.Agostino.

Finito la foto, esco ma non trovo più la mia famiglia.

 Allora controllo nelle tribune, ma non ci sono. Sono disperato, penso nella mia testa,  come andare avanti allora dico “Beh penso che l’unico modo per andare avanti è andare a casa”. 

Ci metto 5 minuti per arrivare.

 Mentre cammino speravo che a casa ci fosse qualcuno.

 Durante il percorso  non c’era nessuno, la strada era deserta ma per la prima volta non ho avuto paura. 

Arrivato a casa suono il campanello, aspetto, risuono il campanello ma non c’era nessuno. 

Allora ho suonato il campanello dei miei due vicini ma non hanno risposto. 

Mi sembrava che a casa non ci fosse nessuno, mi giro e mi ritrovo il gatto bianco della mia vicina. 

Il gatto è  tutto bianco con qualche riga verde-nero lo sguardo fisso e gli artigli.

 A quel punto la prima cosa che ho fatto è correre come il vento.

 Mi rincorse per 5 minuti, io riuscì a tenerlo distante al massimo 2 metri (circa). 

Continuo a correre, dopo circa 30 secondi mi giro e non c’era più. 

Mi sa che l’avevo seminato.

  Dopo che l’avevo seminato camminai per 5 minuti, non sapevo dove stavo andando, camminavo e basta.

 Guardo il cartello dove c’è scritto via Vivaldi. 

Giro l’angolo della via Vivaldi e mi ritrovo il mostro di Mercoledì Addams, era tutto grigio  con gli occhi grandi come un orologio da appendere alla parete e tutti rossi e aveva anche lui gli artigli affilati, era abbastanza alto e continuava a fissarmi. Dopo un poì decisi di correre via.

Continuo a correre mi volto e lui mi stava inseguendo, era molto veloce ma io di più. Continuammo così per 10 minuti, dopo un po’ mi stanco e allora ritorno allo stadio Bulgarelli, entro e mi chiudo nello spogliatoio e chiudo la porta a chiave. 

Respiro per 30 secondi. 

Visto che tra un po’ quella bestia avrebbe sfondato la porta, decisi di chiudermi in bagno. Apro la porta del bagno e mi ritrovo Achille che come un fulmine fa sparire il mostro di Mercoledì Addams e mi salva.

 Achille aveva la sua armatura, il casco, lo scudo e la spada, mi guarda e dice: “Michelangelo adesso ti faccio tornare dalla tua famiglia. 

Loro sono nel paese delle nuvole e lì c’è il resto del mondo. Tu eri rimasto qui per sbaglio, la terra è troppo pericolosa”. 

Allora mi prende e mi accompagna nel paese delle nuvole dove li c’è la mia famiglia.

Quando siamo arrivati sembrava la terra ma c’erano un po’ di nuvole sia nel cielo sia in terra. Mi guardo attorno e li trovo lì che mi sorridono, mi abbracciano e dico: “MI FACCIO UNA NUOVA VITA.”

CASADEI MICHELANGELO 1A

 

Boom: che Sogno!!!

C’era una volta nel lontano 1500 un paesino nel centro Veneto. Questo paese era bagnato dal mare e molto famoso per il carnevale.

Nel febbraio del 1500 si esibì un’associazione di nome I Ragazzi Del Guercino, il tema era: “Il Sogno.”

 Questo carro era molto bello e faceva emozionare il pubblico, specialmente di sera. Era addobbato di animali e coriandoli, era decorato e colorato.

Si apriva quando c’era il gettito di coriandoli argentati e dorati. Dalla torretta lanciavano gommoni di plastica. L’unico difetto del carro  era il fatto che fosse molto fragile. Era molto alto e quindi arrivava dove c’era il vento più forte, i carristi non pensavano succedesse una cosa del genere.                                                 

La quarta domenica di carnevale c’era un vento a 70 km/h ma i carristi lo ignoravano e fecero carnevale lo stesso.                

Quando il carro si aprì cadde giù tutto e il carro si ruppe. Il carro era disintegrato e gli tolsero 500 punti. 

Quella sera con il carro mezzo rotto, il capo carrista sognò che il carro era vivo e che gli animali si esibivano esibirono. Nel suo sogno Il capo carrista a carnevale era vestito con la giacca impermeabile, perché l’atmosfera era umidiccia e bella fresca, era di aveva come statura intermedia e magrolino., quella sera aveva il pigiama gonfio e soffice. Quel lunedì mattina appena svegliato annunciòo’ ai carristi e disse: “Visto che il nostro carro si è rotto, stasera alle 20:30/21:00 ci vediamo al capannone e vi dirò cosa faremo l’ultima domenica al posto di portare il carro rotto.”

Quella sera il capo carrista disse queste parole: “Visto che il carro di animali aveva volpe, coniglio, gatto, cane e io a casa li ho tutti, ci esibiremo con quelli.”

Quella domenica si esibirono e fecero 495 punti; gli animali erano vestiti così: “Il gatto con un pon pon in bocca e il tutù, il cane da majorette, la volpe da vampiro e il coniglio da carota.                          

Dopo la giuria disse le premiazioni: “Al 5°posto con punti 997 si è classificato l’associazione carnevalesca Risveglio; al 4°posto con punti 1095 si sono classificati i Toponi; al 3°posto con punti 1219 si sono classificati i Mazalora; al 2° posto con punti 1300 i Fantastic 100. Vincono con punti 1423 l’associazione carnevalesca I RAGAZZI DEL GUERCINO!!!”.

Il paesino venne chiamato Venezia che significa: “Città del carnevale e dei canali.”  Inventarono il carnevale nei canali sulle gondole, sulle queli che ci stavano i carri che sbarcarono nel Mare Adriatico poi fecero lo spettacolo.          

Invitarono i 5 carri più belli d’Italia e partecipò anche il carro del Guercino, ci potevano andare solo i vip, i nobili veneziani e i ricchi.

Il capo carrista morì e il popolo mise dentro alla tomba la coppa del carro: “Il sognatore perfetto.”

La morale è: “MAI ABBATTERSI ANCHE SE SI È INFERIORI DEGLI ALTRI, ALZARSI E RIALZARSI UNA O PIÙ VOLTE.”

MELLONI DIEGO 1A

 

L’ANIMA SPECCHIATA

Fissavo il riflesso del mio corpo da un tempo indefinito, vorticando in una spirale di dubbi tormentosi.

Lo specchio mi dava risposte confuse. 

Era mio nemico.

Mi deformava, mi opprimeva, mi giudicava, mi imprigionava. 

Vedevo solo forme imprecise e curve sbagliate: troppo piccole in alcuni punti, troppo formose in altri.

Inclinai lievemente il capo di lato per osservarmi meglio: le braccia paffute, le gambe sbilenche, le ginocchia imprecise, le caviglie sottili.

Trattenni il fiato e la tirai dentro, poi mi girai di profilo.

Il mio peso non sembrava essere aumentato.

Avevo il pieno controllo di me. Eppure… non ero soddisfatta.

Ogni giorno mi scontravo con il riflesso di una ragazza che non riuscivo più a riconoscere. 

Il disordine nella mia testa non si placava. L’umore non migliorava. La mia anima non cambiava colore.

E ogni volta penso alla costante paura di non sentirsi abbastanza, che rappresenta una parte fondamentale della vita che vive ciascuno di noi. Certe persone l’affrontano a testa alta come se fossero fatte di un’armatura che regge anche la più pesante offesa, altre persone invece hanno così tanta paura di potersi ferire che si coprono interamente con vestiti larghi o il viso che traspare sotto quel cappuccio oscuro che posa su una testarda testolina che chissà quanti pensieri contiene. 

Una testolina ed un corpo sfiniti che chiedono aria da quelle vesti tanto coprenti e monotone.

Ma la vera domanda è com’è possibile che quella innocente e così pura ragazza abbia l’aria così esausta?

Io mi sto semplicemente descrivendo, forse quella ragazza tanto insicura, fragile e paurosa sono proprio io. Lo so che l’accettazione di se stessi è una cosa che dovrebbe venire in automatico, una cosa per la quale nessuno dovrebbe farsi un problema. 

Quindi la domanda è: perché questa così brutta insicurezza, accumula tante persone compresa me? 

Ma ormai siamo immersi in una società che ha standard e canoni quasi irraggiungibili che purtroppo non sono delle preferenze che variano da persona a persona, ma sono una cosa del tipo “se non sei così, non sei abbastanza”, “se non hai un fisico a clessidra e non sei formosa, non mi soddisfi”.

Sono delle critiche che ci colpiscono il più delle volte dietro le spalle, perché chi le dice non ha neanche il coraggio di affrontare il cosiddetto problema.

Ma veramente non essere come vogliono gli altri mi rende un problema?

Semplicemente quando hai delle vocine dietro la schiena che ti ricordano ogni santo momento il tuo inesistente valore è molto difficile accettarsi, no…?

E poi quelle maledette voci prendono il sopravvento e invadono la mia mente che non riesce a contrastare questa forza immensa. Insomma, alla fine la vocina sono diventata proprio io, sono io che ho ceduto a quelle vocine che ormai stanziano nella mia testa e tutto ciò si collega alla costante paura di non sentirsi abbastanza. Una paura molto più complessa, molto più nociva, una paura che non è assolutamente come quella di uno spavento, una paura così tanto irrequieta da poter svegliare e mettere in allarme ogni singola parte del mio corpo. È una paura data dal soffermarsi su quello che gli altri semplicemente vedono. 

 

Io mi  chiamo Alessia Gomes ho 26 anni è vivo a Parigi. Sono una ragazza orfana, mia madre è morta due anni fa, invece mio “padre” non l’ho mai conosciuto perché non si è assunto la responsabilità di avermi.

Decisi di non guardarmi più allo specchio, uscii dalla mia camera da letto e andai verso il salotto. Il mio appartamento era stato recentemente ristrutturato. Il salotto era molto spazioso con grandi finestre panoramiche e un divano angolare grigio con dei cuscini bianchi. Davanti al divano ho i 2 tavolini in vetro bianco e acciaio con una finitura in oro, sulla parete grigia attrezzata in stile moderno con ante, avevo elementi a giorno sospesi in cui in ognuno avevo posato un fiore, cassettoni e un porta TV colore bianco frassinato. Il pavimento invece era in gres porcellanato effetto ardesia. 

In cucina avevo un mobile all’ingrosso bianco-grigio.

Avevo un bagno in cui la base era sospesa con elemento curvo a due cassettoni, specchio con faretto Led e infine avevo una grande vasca bianca.

Oggi doveva venire da me la mia migliore amica Marta, quindi decisi di mettere in ordine .

Dopo aver finito tutto mi siedo sul divano ma sento il telefono che avevo posato sul tavolo squillare, quindi mi alzai sbuffando e presi il telefono vedendo che era Marta.                                     

<< Pronto, Alessia?>>

<< Sì Marta, mi hai chiamata tu, è ovvio che sono io.>>

<< Ecco,arrivo alle 15:30. Ah è ho la riserva delle chiavi che mi avevi dato.>>

<< Va bene, a dopo allora.>> metto giù e andai di nuovo verso il divano. 

Dopo essermi seduta, decisi di andare su Instagram al mio ultimo post. 

Entrai nei commenti e vidi commenti positivi, ma scesi ancora un po’ più giù e vidi insulti.

Lanciai il telefono e, una volta varcata la porta della camera da letto, la cosa giusta sarebbe stata tirare un sospiro, infilarmi nel letto e meditare su me stessa per cercare di ritrovarmi, di riconoscermi, di tornare ad amarmi almeno un po’. Ma preferii dirigermi in bagno e riempire la vasca abbastanza profonda da poter accogliere un corpo minuto come il mio.

Non mi premurai di spogliarmi; mi limitai soltanto a sfilare gli anfibi e le calze per lanciarli in un angolo lontano.

Vestita di rabbia e angoscia, privata dell’ultimo brandello di lucidità, vi immersi prima un piede poi l’altro, distendendomi supina con le mani saldamente ancorate ai bordi di ceramica, finché bacino, petto, collo furono completamente sommersi. Prima di affondare come una nave in mare aperto, raccolsi l’ultimo soffio d’aria, trattenni l’ossigeno nei polmoni e gonfiai le guance, poi andai giù, restando con gli occhi aperti a fissare il nulla e attendere che accadesse qualcosa.

Qualsiasi cosa.

Gli abiti divennero di piombo.

I capelli nastri solleticanti attorno a me.

I rumori ovattati appartenenti a un mondo che avrei voluto salutare.

Avevo sempre bisogno di arrivare al limite per combattere contro le tenebre che avevo dentro. Dovevo  rischiare, giungere sull’orlo del precipizio per poter sentire la voce di mia madre, per poterla vedere o per poterne percepire il tocco delicato. 

Desideravo vedere la mamma ancora una volta.

Non ero mai stata capace di dirle quanto l’amassi, di ringraziarla quando ogni sera mi rimboccava le coperte, di sorriderle quando mi schioccava il bacio della buonanotte sulla fronte o di apprezzarla quando mi tediava con le ramanzine, spesso severe e oppressive, con le quali cercava di dimostrarmi il suo affetto.

Avevo perso la mia stella polare. 

Il mio punto di riferimento.                                                                                                               

La mia unica forza.

Ero stata una pessima figlia, non avevo mai eccelso a scuola, le avevo procurato un sacco di guai, non avevo mai fatto nulla che potesse renderla fiera di me.

Mi piacerebbe raggiungerti, pensai, così avrò un’altra occasione per scusarmi, mamma.

Restai ferma, sott’acqua.

Le forze pian piano iniziarono ad abbandonarmi, il cuore a rallentare i battiti. 

Rilassai le dita, staccandole dai bordi; le percepii anchilosate, fredde come il gelo che mi stava penetrando nella pelle, fin dentro le ossa.

Forse questa volta avrei portato a termine la mia deprecabile iniziativa.  

Chiusi le palpebre quando la pressione nel petto aumentò; fu inequivocabile il segnale delle ultime rimanenze di ossigeno.

L’acqua cominciò a tracimare, bagnando il pavimento mentre continuava a sgorgare dal rubinetto aperto.

Trattenni l’istinto di dimenarmi e di riemergere per alimentarmi d’aria.

Tutto stava per finire, davvero.

Non conoscevo nessun modo per accelerare le cose; dovetti solo attendere.

Aspettai, aspettai, aspettai… finché qualcuno chiuse il rubinetto e, con una forza madornale, mi agguantò per i fianchi per tirarmi su, fuori dall’inferno al quale mi ero condannata.

Tossii e quando aprii gli occhi, orlati dalle ciglia bagnate, incontrai due iridi verdeazzurre e mi accorsi che era lei. La mia migliore amica, Marta.

Mi sollevò e scivolò sul pavimento portandomi con sé. Gli caddi addosso.

<< Tu non avresti dovuto…>>

<< Fai silenzio Alessia.>> Mi rimproverò prima ancora che formulassi il mio pensiero. Era arrabbiata o delusa, non seppi interpretarlo. 

<< Non credevo fossi così incosciente…>> Marta spostò la testa e con una mano cercava di prendere un asciugamano.

Mi accasciai su di lei e sospirai << Ti sei spaventata?>> 

<< Secondo te?>> Percepii una sfumatura di rimprovero nel suo timbro.

<< Sì.>> Assentii

<< Hai idea di cosa sarebbe successo se non sarei venuta in tempo?>>

<< Avrei raggiunto la mamma e…>>

<< Non dire fandonie, Alessia. Arrendersi non è un’opzione valida. Anzi, per quanto mi riguarda, non è neanche un’opzione.>> Contestò infastidita.

<< Ognuno è libero di fare ciò che vuole, no?>> 

<< No. Sapendo che lasci indietro me, la tua migliore amica che ti è sempre stata vicina. Devi considerare il dolore non solo come un’esperienza sensoriale spiacevole o traumatica, ma come una delle tante strade che puoi intraprendere per conoscere te stessa.

Può permetterti di approdare a una realtà diversa, di superare la dipendenza che provi nei confronti delle persone che hai perso in passato, o che ti stanno attorno nel presente.>> Marta insinuò le dita tra i miei capelli bagnati e li pettinò adagio, come se volesse consolarmi dopo avermi inflitto un’amara verità.

Sconvolta, mi raddrizzai per guardarla in faccia. << Mi stai dicendo che devo dimenticarmi della mamma?>>>

Gocce d’acqua distillavano dai miei indumenti bagnando i suoi. << Ti sto dicendo che prima o poi dovrai accettarne l’assenza.>>

 

4 anni dopo…

Mi ritrovo distesa su un lettino prendisole con la vista al mare di Sardegna, al mio fianco c’era Marta che dormiva beatamente.

Beh ragazzi… vi devo dire che col tempo ho cominciato ad accettarmi e a disinteressarmi del parere degli altri.

Alla paura che avevo non serviva un’armatura di acciaio, ma di consapevolezza di essere abbastanza.

 

 MILUT CLARA MARIA 1A

 

Sogni su due ruote

Stavo andando come ogni giorno in bici a scuola, svoltai in via Penzale e vidi la campagna avvolta in un mantello di nebbia fitta e bianca, vidi tante macchine e furgoni passare, alcune molto vicine a me altre facevano attenzione e tenevano una distanza di sicurezza.

Ad un tratto vidi sfrecciarmi di fianco mio fratello, anche lui in bici, che mi sorpassa senza battere ciglio.  Essendo una strada molto trafficata; mio padre mi diceva sempre di stare attento ad attraversare e di stare al bordo strada. Poi pian piano sentii un rombo che si fece lentamente più forte, mi resi conto che stava arrivando un camion ad alta velocità; io però restai tranquillo perché ero abituato a essere sorpassato da tanti veicoli.

Dopo alcuni secondi (l’hai appena usato) però mi decisi a guardare l’autista,  perché il rumore si era fatto molto forte: aveva una mano fuori dal finestrino, una pipa in bocca e una specie di cappello e occhiali neri. Nella sua espressione si vedevano chiaramente lineamenti di disprezzo e decisione.

Mi resi conto che stava andando proprio sul bordo strada, cioè dove mi trovavo io. Spaventato cercai di andare ancora di più ai lati/esternamente sul bordo strada, ovvero sull’erba. Ora l’autista aveva guidato il camion un metro dietro di me, e con la parte davanti il punto avanti del camion mi toccò la ruota dietro. Io persi l’equilibrio e caddi nel piccolo fosso in secca da tempo. 

Gridai all’autista (scrivi cosa gridasti), che non si era neanche fermato, inutilmente, perché si stava già allontanando a tutto gas. Mi resi conto che il mio dito e la gamba sinistra si erano probabilmente rotti. 

Immediatamente presi il telefono, e chiamai i miei genitori e gli dissi velocemente, dilaniato per il dolore, cosa era successo. Loro vennero subito e chiamarono l’ambulanza, che arrivò il più velocemente possibile, e mi portò all’ospedale. Il dottore confermò che si erano rotte le ossa, mi misero la fasciatura e lo ingessarono. 

Dovetti restare in ospedale per ben 26 giorni. Quando mi svegliai il giorno dopo ripensai a quello che mi era successo il giorno precedente e provai a intuire il perché di tutto questo.

Nei seguenti due giorni altri tre ragazzi che avevano vissuto la mia stessa cosa vennero a popolare l’ospedale; “Almeno non mi annoierò!!” 

Perché quell’autista voleva fare queste cose?? 

Era arrivato il 26° giorno e finalmente le mie ossa erano guarite, salutai e augurai buona guarigione agli altri 6 ragazzi (altri 3 erano venuti dopo).

Ero libero!!

I seguenti 20 giorni andai in macchina con mia mamma per timore sia mio che suo. Arrivai sempre a casa sano e salvo fino a che una sera mio papà, che dubitava di questo strano avvenimento, decise, discutendo con noi, di riprovare ad andare in bici, ma accompagnato per sicurezza. 

Quella notte non dormì bene e sognai di essere letteralmente investito. 

Ma successe peggio. 

Partii con mia madre e non appena svoltammo via gigli per via Penzale, il mio cuore cominciò a pulsare forte, veloce.

Poco dopo venne il camion, sempre lo stesso, anticipato dal rombo, ma questa volta venne direttamente dalla nostra via parallela, era dipinto di blu e nero, aveva un motore scoperto come un cartone di pizza tagliato a metà in orizzontale; ad un tratto sentii abbaiare un abbaio, capii subito che era di Milo (il mio cane), che abbaiava in continuazione. 

– Noooooooo, mamma ha preso Milo.-. 

Mia mamma non parlò perché era rimasta senza parole, (e anche impaurita.) Il camion si stava avvicinando a grande velocità verso di noi. Cercammo di accelerare, inutilmente perché la strada era dritta; ancora in corsa a gran velocità ci tamponò la bici e noi cademmo nel fosso, io per la seconda volta. IL camion se ne stava andando di nuovo, ma questa volta con il mio cane.

– NOO, MILOOOO…-

– Elia, cosa c’è?-

Era mia mamma che mi era venuta svegliare chiedendomi con calma cosa avevo. 

– Ma allora era un sogno-.

– Sì, hai sognato-.

Ma come, il camion, il fosso e … Milo!

Spaventato corsi alla porta e chiamai il mio cane. Lui venne e mi scodinzolò tranquillo con le orecchie alte. 

Meno male: era vivo. 

Dopodiché andai in cucina a raccontare tutto a mia mamma. 

Ora potevo andare a scuola tranquillo, senza paura di essere preso di mira.

SANDRI ELIA 1A

L’ISOLA DEGLI ANANAS

  In un’isola in mezzo al mare viveva una comunità di pappagalli. Quell’isola era piena di vegetazione, soprattutto di alberi di ananas, per questo la chiamavano “l’isola degli ananas”. Lìi’ c’era una temperatura mite e splendeva sempre il sole. I pappagalli dell’ isola degli ananas vivevano felici e spensierati, sotto la guida del loro capotribùu’ Esmeraldo. Esmeraldo era un pappagallo di media statura e le sue piume erano di un verde smeraldo brillante, da cui prendeva il nome. Era un capo protettivo verso gli altri pappagalli, e non li trattava come sudditi, ma come amici. 

Il suo nome scientifico era “parrocchetto dal collare”, ma nell’isola degli ananas c’ erano molte altre specie, tutte diverse: cacatua, ara, cocorite, calopsiti… 

Tutti i pappagalli dell’isola vivevano pacifici e spensierati.  

Tra tutti i pappagalli, Esmeraldo aveva una migliore amica: Fiamma, una dolce pappagallina color tramonto, “bella come nessun’altra”, pensava Esmeraldo. Era un conuro del sole e Esmeraldo aveva deciso che un giorno o l’altro sarebbe diventata la sua fidanzata. 

Tuttavia aveva anche un quasi-nemico (“quasi-nemico” perché essendo il capo doveva rimanere abbastanza imparziale riguardo a simpatie e antipatie). Si chiamava Alberto e gli stava antipatico perché secondo lui aveva pianificato di corteggiare Fiamma, perché stava sempre con lei. Anche lui apparteneva alla specie “conuro” come Fiamma, ma non aveva il piumaggio color tramonto: aveva le ali verdi, la pancia bianca, il collo di una sfumatura giallo-arancione e la punta della testa nera, come se gliel’avessero intinta in una pentola di catrame. Alberto era un po’ egocentrico ma del resto era simpatico ed Esmeraldo lo avrebbe accettato, se non fossero stati rivali in amore.

  Un giorno Esmeraldo, Alberto e Fiamma decisero di fare una passeggiata insieme. Quel giorno c’era un bellissimo sole, molto caldo, così dopo un po’ furono tutti assetati. Alberto ebbe l’idea di sdraiarsi all’ombra di una palma a sorseggiare un frullato di ananas e cocco fresco. Mentre Alberto andava a comprare i frullati in un bar vicino, Esmeraldo e Fiamma avevano il compito di cercare una palma abbastanza grande da far stare all’ombra tutti e tre.

Intanto si era fatto tardi. Esmeraldo pensò che quello fosse il momento giusto per dire a Fiamma cosa provava, perché fino a quel momento non ce n’era stata occasione. Stava per farlo quando nella sua mente sorsero dei dubbi : “E se mi rifiutasse? E se preferisse Alberto?”. Mentre rimuginava Fiamma aveva avvistato una grande palma vicino al mare e dopo arrivò anche Alberto. “ Tanto non gliel’avrei detto comunque: non è ancora il momento!” pensò Esmeraldo. 

Poi si sedettero sotto la palma, anche se non serviva più a fare ombra perché il sole era tramontato.

«Che bello il tramonto oggi» disse Alberto «mi ricorda proprio le tue piume, Fiamma!» 

«Già, è vero.» concordò Esmeraldo, ma gli sembrava strano che Fiamma non parlasse perché di solito era molto socievole.

 A quel punto si accorse che dormiva. 

«Fiamma dorme!» bisbigliò Esmeraldo.

«Lo so.» rispose Alberto.

Esmeraldo guardò il tramonto, e si ricordò della prima volta che aveva incontrato Fiamma. 

Avevano passato tutta la giornata insieme, fino a tardi. Mentre ripensava a tutte le cose che avevano fatto, scorse all’orizzonte una nuvola di fumo. “Chissà cosa sarà?” si chiese.

Poi si voltò verso Alberto e scoprì che si era addormentato anche lui. Era davvero una bella serata, silenziosa, buia. Esmeraldo era immerso nei pensieri e non si accorse che si stava facendo ancora più buio. A un certo punto smise di pensare, si accoccolò più vicino a Fiamma e chiuse gli occhi. 

  La mattina seguente Esmeraldo fu svegliato dalla luce dell’alba. Alberto era già sveglio e stava scrutando il mare. 

«Cosa guardi?» chiese Esmeraldo, con la voce ancora impastata dal sonno.  

«C’è una barca,» rispose Alberto «e sembra che a bordo ci siano dei pappagalli.»

«Come noi?» chiese allora Esmeraldo. 

«Sì, ma sono tutti neri!». 

Allora Esmeraldo, stupito, si alzò per vedere «Strano!» esclamò quando li ebbe visti. 

«Già!» confermò Alberto. 

«Dici che vengono qui?». 

«Boh!». 

A quel punto si svegliò anche Fiamma. «Buongiorno!» sbadigliò. «Cosa c’è per colazione?» domandò poi, svegliandosi del tutto. «Niente, per ora, ma se ti va possiamo  andare in un bar.» rispose Alberto. «Ok, l’importante è mettere qualcosa sotto i denti!» esclamò Fiamma, pensando già a cosa prendere al bar.

E così si incamminarono verso il bar. Fiamma ordinò i pancake ricoperti di sciroppo d’acero, Esmeraldo un toast e una spremuta d’arancia e Alberto un cappuccino. 

«Di cosa parlavate prima che io mi svegliassi?» domandò Fiamma appena arrivò l’ordine.

«Niente di importante. Abbiamo visto una barca avvicinarsi» rispose Alberto, con il becco sporco di panna montata.

«E sembrava che ci fossero dei pappagalli neri a bordo» aggiunse Esmeraldo, poi diede un morso al suo toast.  

«Ah. Alberto, mi fai assaggiare la panna montata?» chiese Fiamma, finendo il primo pancake.

«Ma certo!» rispose lui, prese un cucchiaino, lo mise nella tazzina di cappuccino e lo tirò fuori pieno di panna montata, poi lo diede a Fiamma. 

A quel punto Alberto finì il cappuccino e poi dichiarò: «Ragazzi, devo andare: ho un impegno con i miei amici!» «Ciao!» lo salutò Fiamma.

«Ci vediamo!» disse Esmeraldo. 

«A presto!» concluse Alberto, poi se ne andò. Quando rimasero soli, Esmeraldo pensò: “È il mio momento! Se non le dico adesso quello che provo per lei!” Così raccolse tutto il suo coraggio da capotribù e si fece avanti. 

«Fiamma, ti devo dire una cosa!»

«Dimmi pure!» rispose curiosa di cosa avrebbe detto. «Io…» cominciò Esmeraldo, ma non ebbe il tempo di finire la frase perché arrivò all’improvviso Gioele, il suo segretario (ogni capo che si rispetti ha un segretario). Gioele era una cocorita gialla con qualche sfumatura verde o blu qua e là. Era molto simpatico e sempre ligio nel suo lavoro di segretario. Fin da piccolo era un amico inseparabile di Esmeraldo. Erano cresciuti insieme e quando Esmeraldo fu nominato capotribù,  Gioele divenne il suo segretario. Aveva una fidanzata. Si chiamava Bianca ed era una cocorita albina (bianca, per l’appunto). Era una grande amica di Fiamma, che quando non la vide insieme a Gioele rimase un po’ delusa, perché era da tanto che non la vedeva. 

Si salutarono poi Gioele annunciò: «Sono appena sbarcati dei pappagalli neri  e il loro capo vuole vederti.» 

Poi si rivolse a Fiamma e aggiunse: «Mi dispiace ma oggi  Bianca aveva degli impegni.»

«Fa niente» lo rassicurò Fiamma, poi mangiò l’ultimo boccone di pancake. 

«Tu vieni con noi o resti qui?» domandò Esmeraldo a Fiamma. 

«Sprecando così un’occasione di avventura? Certo che vengo con voi!» esclamò lei, alzandosi. 

«Bene, allora incamminiamoci!» si intromise Gioele, per poi fare cenno di seguirlo verso la spiaggia.

  Ad aspettarli c’era il capo dei pappagalli neri appena sbarcati.

«Bene, finalmente sei arrivato!» disse, in tono provocatorio. 

«Cosa volete, e chi ti credi di essere?» chiese irritato Esmeraldo. 

«Sono Lorenzo, il possente capo dei pappagalli… neri e sono venuto per invadere la vostra isola!» rispose l’altro. «Te lo impedirò!» annunciò di rimando Esmeraldo. 

«Non credo proprio! Hai persino bisogno della fidanzata per uscire di casa, fifone!» sentenziò Lorenzo. A quel punto Esmeraldo si infuriò. 

«Primo, so difendermi benissimo e secondo non è la mia fidanzata!» disse. 

«Allora ti propongo una lotta sulla spiaggia: chi vince fa restare la sua comunità sull’ isola  e chi perde viene cacciato!» propose Lorenzo, già pregustando la sua possibile vittoria. 

Esmeraldo guardò verso la folla dei curiosi che si era riunita per vedere cosa succedeva. C’era chi faceva cenno sì e chi cenno di no.  

«Hai paura che io ti batta, fifone?» lo punzecchiò Lorenzo . «Non è un fifone, sta solo scegliendo il modo in cui batterti! Vero, Esmeraldo?» disse Fiamma.

«Giusto! Per me va bene, tanto non puoi competere con me!» rispose Esmeraldo. 

«Allora domani ci vediamo qui a quest’ora.» concluse Lorenzo.  

«A domani.» salutò brusco Esmeraldo, poi volò via.

Quella notte i pappagalli neri dormirono in tende di fortuna, costruite da Raimondo, il segretario tuttofare di Lorenzo. 

Raimondo era in tenda con Lorenzo e in quel momento gli stava facendo un massaggio con un unguento speciale. «Va bene così, Lori?» chiese, usando il solito soprannome.

«Sì, grazie Raimondo! Buonanotte!» lo ringraziò Lorenzo. «Buonanotte» rispose Raimondo, poi spense la luce.

  Alberto scoprì dell’accaduto solo quando la mattina seguente vide sulla spiaggia Esmeraldo e Lorenzo, contornati da un recinto per allontanare i vari spettatori. Da una parte erano riuniti tutti i pappagalli neri e dalla parte opposta quelli dell’isola degli ananas. Alcuni pappagalli erano persino andati su degli alberi per vedere meglio la scena.  

«Che succede?» chiese a Fiamma. 

«Quella barca che avevate visto ieri è sbarcata e il capo dei pappagalli neri, Lorenzo, ha sfidato Esmeraldo per la conquista dell’isola!» rispose lei.

«E lui ha detto di sì? Poteva dire di no, tanto l’isola era già nostra!» disse Alberto, agitandosi un po’.

«Lo ha fatto per la sua reputazione! Se avesse detto di no, tutti lo avrebbero preso per un pappa-molle, invece che per un pappa-gallo!» disse di rimando Fiamma, ma poi si zittì, perché stava cominciando l’incontro.

Fiamma e Alberto si erano messi in prima fila, per vedere meglio. La zuffa cominciò. Lorenzo graffiò Esmeraldo nell’occhio con la zampetta, che per difendersi la morse.

Lorenzo tirò indietro la zampetta, ma mentre faceva ciò Esmeraldo lo graffiò, per “ricambiare il favore”. 

Allora Lorenzo indietreggiò e diede una testata a Esmeraldo. 

«Ahi!» gridò Esmeraldo, ma poi si riprese subito e lo graffiò una seconda volta, stavolta nell’ altro occhio. Allora Lorenzo gli diede altre quattro-cinque capocciate. Quando si fu ripreso, Esmeraldo gli diede una testata, cercando di imitare Lorenzo, ma si fece male da solo.

«(è maiuscola)E’ tutto quello che sai fare?» lo provocò Lorenzo.

A quel punto Esmeraldo si infuriò e si alzò in volo.

Voleva mettere in pratica un attacco aereo. 

A un certo punto scese in picchiata su Lorenzo, puntando i suoi artigli verso di lui.

Tutti in quel momento erano agitati: sia i pappagalli dell’isola degli ananas che i pappagalli neri si zittirono in attesa di cosa sarebbe successo. 

Si sentiva solo il rumore delle onde infrangersi nel mare.

Esmeraldo piombò sull’avversario e lo spinse. Lorenzo  invece di volare via a sua volta, cadde in acqua.

 Esmeraldo aveva vinto, tra la gioia dei pappagalli dell’isola degli ananas! Poi però, non vedendo Lorenzo risalire a galla, nella mente di Esmeraldo scattò il meccanismo di protezione verso gli altri pappagalli. Allora si tuffò. 

Ci mise un po’ a trovarlo, perché sott’acqua c’era una specie di nuvola che gli impediva di vedere e Lorenzo era proprio lì in mezzo. “Strano.” pensò Esmeraldo. Alla fine trovò a tastoni Lorenzo che aveva perso i sensi. “Non avrebbe dovuto provocarmi, ma mi dispiace molto per lui!” pensò Esmeraldo mentre risaliva a galla. 

Ma a galla c’era una sorpresa che lo aspettava.

Quando riuscì a riaprire gli occhi scoprì con suo grande stupore che Lorenzo non era più nero, ma aveva un piumaggio scarlatto e si poteva riconoscere che apparteneva alla specie “lorichetto rosso”. Esmeraldo era sconvolto, come tutti i pappagalli dell’isola degli ananas, che pretendevano spiegazioni. 

  «Eravamo una comunità di pappagalli che viveva tranquilla in un’isola, come voi. La particolarità della nostra isola era un vulcano. Eravamo molto fieri del nostro vulcano, fino a ieri l’altro, cioè quando cominciò a eruttare. Fu la cenere uscita dal vulcano a farci annerire così. (è maiuscola) E’ per questo che con l’acqua le piume di Lorenzo sono tornate normali. Quel giorno successe anche che, per salvare due giovani cocorite, Lorenzo perse il dono di volare, bruciandosi l’ala destra con uno schizzo di lava. Per questo siamo venuti in barca e non in volo.» spiegò Raimondo, quando gli chiesero spiegazioni.

«Capisco, mi dispiace. Ma perché non l’avete detto subito? Vi avremmo accolti con piacere!» disse Alberto. 

«Sì, è vero!» confermò Esmeraldo, poi pensò: “Ecco perché quel giorno ho visto una nuvola di fumo!”.

 

Fiamma era contenta perché adorava il lieto fine. Lorenzo aveva già ripreso i sensi e stava chiacchierando con lei seduto sulla spiaggia.

«Allora , non sei sempre stato nero!» esclamò Fiamma, molto presa dalla storia di Lorenzo. 

«Già!» rispose soddisfatto di sé, mettendo in mostra il suo piumaggio rosso rubino.

Intanto Gioele e gli altri si stavano tuffando in mare per far scomparire il nero, così da rivelare il loro vero colore.

Mille colori apparirono dopo che i pappagalli dell’isola vulcanica si furono lavati.

«Che bello spettacolo!» disse Alberto a Esmeraldo.

«E’ vero! Senti, possiamo smetterla di essere nemici solo per Fiamma?» chiese Esmeraldo.

«Non siamo mai stati nemici.» rispose confuso Alberto.

«Sì, lo eravamo per Fiamma. La volevi corteggiare!».

«Ma che dici? Fiamma è mia cugina!» spiegò Alberto, capendo il malinteso.

«Quindi, ho proprio capito male?» chiese l’altro confuso.

«Sì. E comunque non ce la farai mai a corteggiarla se continui così. Guarda, sta parlando con Lorenzo!» lo avvisò Alberto. 

«Hai ragione! Vado subito a parlarle!» dichiarò deciso Esmeraldo.

«Ciao Fiamma, posso parlarti?» le chiese.

«Ok! Scusaci un attimo Lorenzo!» cinguettò, poi si spostò all’ombra di una palma con Esmeraldo.

«Fiamma, vuoi essere la mia fidanzata?» chiese Esmeraldo a Fiamma, guardandola negli occhi.

«Sì!» rispose lei. Si abbracciarono.

Alberto osservava la scena da lontano.

“Finalmente ce l’ha fatta! Era da tanto che lo vedevo provare senza successo. Sono proprio contento per lui” pensò.

Gli si avvicinò Lorenzo. 

«Che bello il lieto fine! Giusto?» . 

«Già» confermò Alberto «sono proprio contento che le due civiltà si siano unite!».

 

Il sole tramontò.

«Guarda, Fiamma, oggi il tramonto ti assomiglia!» disse Lorenzo. 

«Grazie.» rispose Fiamma.

«Fammi indovinare. Te l’hanno già detto più di una volta!» scherzò Lorenzo. 

«Esatto, e parecchie volte!» rise lei.

Lorenzo, Fiamma, Esmeraldo e Alberto erano sotto una palma, che ormai non serviva più per proteggerli dalla luce del sole.

Erano vicini all’accampamento di tende dei pappagalli dell’isola vulcanica, intenti ad osservare il cielo, calmo e armonioso come non mai.

Fiamma si addormentò per prima, seguita da Esmeraldo e Alberto.

Lorenzo, che di solito si addormentava tardi, restò sveglio ancora un po’. “Oggi è stata proprio una bella giornata!” pensò, poi appoggiò la testa sulla spalla di Alberto, chiuse gli occhi e si addormentò.

TEDESCHI SOFIA 1A


LE AVVENTURE DI UNA FATA

C’era una volta tanto tempo fa, in un castello molto  grande, una fata che stava preparando delle pozioni per fare magie.

A un certo punto entra una bambina di nome Caterina, con il suo cavallo Berardo, e la fata turchina gli dà una pozione magica,lei la beve poi diventa invisibile.

Senza farsi vedere da nessuno va nella casa sull’albero.

Qui c’è un orco che tiene la porta chiusa, perché teneva imprigionata la figlia della fata turchina.

Quindi Caterina senza farsi vedere prova ad entrare in casa,quando ci riesce fa bere alla bambina l’ultimo goccio di pozione in modo da far  diventare invisibile anche lei, senza farsi vedere escono e tornano al castello.

Quando arrivano si sentono sfinite perché hanno corso tanto,così per recuperare le energie mangiano un po’ di cioccolato dato dalla fata turchina, finito il cioccolato si sentono meglio e vissero tutti felici e contenti.

TUMIOLI PAOLO e MEHAR MEERAB 1A

Tempo

Era un giorno qualunque e il tempo era nuvoloso, sembrava che stesse stava per iniziare a piovere.

Quel giorno i miei genitori mi dissero che dovevano uscire a fare una passeggiata, e mi chiesero se potevo tenere mio tuo fratello. Io gli dissi che andava bene; loro mi salutarono e uscirono dalla porta.

Decisi di guardare la tv, ma dopo un’ora sentii un urlo che proveniva dalla stanza di mio fratello:  

era mio fratello che chiedeva: “AIUTO!.”

Appena sentii quell’ urlo corsi in camera di mio fratello, entrai nella camera: di mio fratello era sparito.                                                                   

Succedeva che avevo lo sguardo fisso nel nulla, e avessi le sopracciglia ravvicinate al centro: sembrai sul nel punto di scoppiare a piangere. (questa descrizione è ottima: complimenti!)

Ma dopo un po’ immaginai la loro faccia arrabbiata perché mi avevano detto di controllarlo.

Mi avrebbero messo in punizione per un’eternità se avessero scoperto che era sparito.

Scesi le scale, presi la borsa e indossai le scarpe e la giacca.

Uscii fuori casa e chiusi la porta a chiave. Decisi di andare a chiedere a qualcuno se aveva visto mio fratello, ma purtroppo a tutte le persone a cui che avevo chiesto nessuno lo aveva visto.

Dopo 3 ore avevo chiesto a tutte le persone della zona/quartiere città, ma nessuno lo aveva visto.

In quel momento, improvvisamente mi ricordai che avevo dimenticato il libro di storia a scuola e domani c’era la verifica e non avevo ancora studiato, allora corsi a scuola per andare a prendere il libro di storia.

Entrai nella scuola, incontrai la bidella che stava lavando il pavimento e le chiesi se potessi andare a prendere il libro di storia; lei mi disse che potevo andare a prendere il libro.

Allora, intanto che stavo attraversando il corridoio, notai che nel muro c’era una leva, tirai la leva e nel muro si aprì una porta;, entrai in quella stanza:, era una stanza tutta fredda e buia, sperai che ci fosse un interruttore per accendere la luce per vedere cosa c’era in quella stanza.

Dopo un po’ di tempo riuscii a trovare l’interruttore della luce, la accesi Si accese la luce: sembrava una stanza non aperta da 40 anni. Era una stanza tutta piena di ragnatele e polvere e ch’era una scrivania con degli appunti per delle invenzioni che non avevo mai visto. C’era un’invenzione sotto un velo, tolsi il velo e sotto di esso il velo c’era una macchina del tempo. Non ne avevo mai visto una,  perché non esistevano. 

Allora pensai che con quella macchina del tempo potevo tornare indietro nel tempo prima che mio fratello sparisse.

Prima di salire sopra la macchina del tempo presi degli attrezzi, così se si fosse rotta sarei riuscita ad aggiustarla. Salii sopra la macchina del tempo.

Provai ad attivarla, la macchina del tempo anche se non sapevo come funzionava. Dopo un po’ di tentativi riuscii ad accenderla. Appena si fermò nel momento che avevo scelto/programmato, scesi dalla macchina del tempo.

E andai a chiedere a un signore in che anno eravamo e mi disse che eravamo nel 2018: troppo presto, dovevo riprovarci.

Dopo 4 ore riuscii a tornare nel momento prima che mio fratello sparisse.

Mi avvicinai vicino alla mia casa, appena i miei genitori se ne andarono mi affacciai alla finestra: dentro c’era una persona identica a me, allora pensai che se ero sono tornata indietro nel tempo, significava che  c’era  qualcun altro a posto mio e che se mi avesse vista vede si sarebbe preso prenderà uno spavento

e avrebbe potuto potrebbe chiamare la polizia.

Allora entrai di nascosto dalla porta senza farmi vedere, però la mia copia mi vide allora uscì dalla porta di corsa e salii un’altra volta sopra la macchina del tempo per ritornare un’altra volta in quel momento.

Adesso che avevo capito come funzionava la macchina nella macchina del tempo subito riuscì a ritornare nello stesso momento.

Però questa volta decisi pensai che dovessi aspettare che venisse la persona che aveva rapito mio fratello, così l’avrei seguita e avrei capito dove aveva portato mio fratello e sarei tornata nel presente a prendere mio fratello in quel posto.

In quel momento intanto stavo aspettando che venisse rapito mio fratello per vedere dove l’avrebbe portato.  

Notai che il ladro se n’era già andato via con mio fratello allora di corsa senza fare rumore lo inseguii.

Vidi che era entrato in una via deserta non c’era nessuno, quella persona stava entrando con mio fratello in una porta però prima di entrare nella porta c’era da mettere un codice che era 2890 appena guardai  il codice lo scrissi in un foglio. 

Ritornai nella macchina del tempo e tornai nel presente.

Allora andai in quella via che avevo visto.  Andai davanti la porta scrissi il codice e la porta si aprì.

In quella stanza trovai mio fratello chiuso in una cella corsi da lui e gli chiesi dove fosse la chiave della cella.

Lui mi rispose che le chiavi erano sopra la scrivania corsi a prendere le chiavi, la porta della cella si aprì io e mio fratello che ne andammo via di corsa a casa.   Per fortuna i miei genitori non erano tornati a casa, e non scoprirono mai cosa era successo in quelle ore in cui che non c’erano.





   

 

  





 

 


IMMAGINAZIONE


E se…inventassi un’amica immaginaria? Presto capirete.

Essere come me non è certo facile: tutti credono che sia una tipa strana. Io sono piuttosto silenziosa, ma tanto a scuola nessuno si rivolge a me, quindi non è certo un problema. La mia passione  sono i videogiochi e i libri fantasy, sono il mio mondo. Quando ho capito di dovermerela cavare da sola, pensavo fosse una buona idea diventare una discreta. Ma adesso ho capito che ho bisogno di qualcuno. Un amico. Eppure, nessuno vuole parlarmi. Credo di avere una “fervida” immaginazione, o almeno è quello che dice mia madre. Se è vero, allora non credo che avrò problemi a inventarmi un amico immaginario. Fa molto strano dirlo: “inventarsi un amico”. Tornando a ciò che dicevo prima, il bello di avere degli amici immaginari è che puoi decidere il loro aspetto, il carattere e tutto il resto.

Ah giusto.

Voi non sapete chi sono io. Be’, a me i misteri piacciono. Quindi deciderò di tenere la suspense. Sono sicura che prima o poi verrete a sapere della mia “identità segreta”. 

Allora…voglio che la mia amica si chiami con il mio soprannome: Endler. Magari che sia anche sicura di sé, avventurosa. Si, mi piace. Ora basta solo immaginare il suo aspetto. Occhi viola (il mio colore preferito-e il colore dei miei capelli), alta e con capelli lunghi. 

– Ciaoooo! – una voce femminile alle mie spalle che mi saluta. Ma chi è?

– AAAA!! Ma chi sei? Cosa ci fai qui?!- riguardo alla mia reazione, credo di aver esagerato. Ma poi mi rendo conto: alta, con capelli lunghi e occhi viola. Endler!

-Calmati! Non mi riconosci?- dice lei.

-In realtà… ciao, Endler. suppongo che abbia funzionato. E scusa se ho urlato in quel modo, prima.-  Ma lei mi sorride. Mi dispiace davvero, ma il lato buono è che almeno ora posso parlare con qualcuno, e ne sono molto felice.



-Cosa ti va di fare adesso?- mi chiede Endy.

-Non saprei. Ma non ho molto tempo, devo fare i compiti domani, ho la verifica di spagnolo.- detto questo, mi guarda delusa.

-Seriamente? Sono brava in spagnolo. Domani posso darti tutte le risposte che vuoi in verifica! Vuoi giocare alla play sì o no?- Sinceramente, non credo che sia una buona idea. Forse non è davvero così brava come dice, ma abbiamo più di 30 pagine da studiare!

-Va bene allora, ma sappi che mi fido di te, quindi non farmi sbagliare.-

-Promesso!-


Oggi c’è la verifica di spagnolo e sono molto nervosa, non ricordo molte cose. Per fortuna c’è Endler che si è offerta di aiutarmi. Spero che mi suggerirà le cose giuste. Mi rendo conto che, mentre entro in classe, mi sudano le mani. Le verifiche mi rendono sempre così, ma credo che facciano questo effetto a molte altre persone. -Nervosa?- mi chiede Will, un ragazzo emarginato, proprio come me. -Molto. E tu hai studiato?- gli chiedo. -Poco, perché ieri pomeriggio avevo molte cose da fare e non avevo tempo per ripassare-. È evidentemente ansioso. La prof Halos ci consegna i fogli mentre ci sediamo. Scrivo il nome, la data e comincio. “La prime risposta è “perra”, la seconda è “moco”.” Fortunatamente, io e Endy abbiamo la telepatia. Così posso comunicare con lei senza dire niente. Mi metto a scrivere, ma ho la costante paura di sbagliare. E se Endy non mi sta dicendo le risposte giuste?

“Endler, sei sicura di quello che stai dicendo?”

“Sì ovvio.” Lo spero bene.



Una volta suonata la campanella, consegno la verifica. Molti non sono riusciti a finirla, quindi se prendo un voto basso non sarò l’unica.

-Ragazzi, ragazzi! Volevo semplicemente dirvi che vi consegnerò le verifiche durante la quinta ora, dal momento che ho un’ora buca in cui posso correggerle. Arrivederci!- 

Cavolo! Non me lo aspettavo. Ma non importa. – Ciao di nuovo- dice qualcuno dietro di me, Will. – Ciao. Ehm… bella maglia.- Indossa una maglietta dei Dead’id Hills, una delle mie band preferite.

-Anche a te piacciono i Dead’id Hills?- mi chiede.

-Sì, li adoro!- così cominciamo a parlare di musica e di band e altre cose del genere.

“Ti sei già dimenticata di me? Hahahahahahaha!” Mi chiede Endler con la nostra telepatia speciale. “Ovviamente no!”. Alla fine è una tipa molto simpatica. 

Mi avvio per l’aula di musica, dove io suono la batteria. La prossima ora verrà la prof Halos per consegnare le verifiche, ma so già che sono andata male. È come se fosse un promemoria, che ritorna ogni minuto della lezione. Ma perchè mi preoccupo così tanto solo per una verifica?

Allora mi concentro sulla musica, sul pezzo che devo suonare davanti a tutti. 

La mente si libera da tutti i pensieri.

E poi…

-Toc! Toc!- È la prof Halos. All’improvviso non ho più così paura dei risultati.

Ho preso 5. Non fa niente. Ma a questo punto arriva Endy: “Ehm…non arrabbiarti, Violet. Scusa, ma pensavo di essere davvero brava!” So che ne è davvero convinta e che le dispiace davvero. A un certo punto mi appare davanti. I suoi occhi sono lucidi, la carnagione chiara del viso si è arrossata. È davvero imbarazzata. “Non importa Endy.”

Guardo Will. Sembra…è rossissimo e trema. Mi dispiace anche per lui.

Quando la prof Halos se ne va, mi rimetto a suonare. Suonare per me è bellissimo, mi aiuta a concentrarmi e a liberare la mente.

Quando finisce la scuola, al suono della nostra campanella squillante, torno a casa. La strada per arrivare a casa mia non è molto lunga, infatti arrivo a casa più presto di solito.

“Sai, penso che tu sia davvero brava a suonare, Violet.” dice Endler.

In realtà, non me lo ha mai detto nessuno, quindi stento a crederci. 

“Non lo so. Nessuno mi ha mai detto un cosa del genere.”

Nel frattempo, mi viene un’idea. “ Endy…e se provassi a fare amicizia con Will?”

Dapprima, lei non risponde. Quindi, entro in casa.

-Ciao a tutti!- dico, ma ovviamente non c’era nessuno. I miei genitori sono sempre a lavorare, quindi al pomeriggio sono tutto il tempo sola. Prendo dal frigo una bottiglia di latte e mangio i cereali.

-Penso che sia una buona idea fare amicizia con Will- risponde Endler a voce alta. 

-Davvero?- Rispondo. – in fondo, devo superare la mia “paura” di fare amicizia. E poi io e Will siamo molto simili.- La guardo: ha un’aria sospetta, sta sicuramente pensando a qualcosa.- Domani a scuola potresti provare a parlarci.-

Lo farò di sicuro. Il momento perfetto sarebbe durante la pausa pranzo: il momento peggiore della giornata. Tutti i gruppi di amici si siedono allo stesso tavolo, e gli altri si siedono in disparte.

Nella mensa puoi fare amicizia con chiunque, ma tanto io non ci ho mai provato. Decido di dare un freno ai miei pensieri, quindi chiudo il discorso. 

Per il resto del pomeriggio mi diverto con la mia amica “immaginaria”, anche se non riesco a smettere di pensare a…domani.


Ed è così che mi ritrovo nella mensa scolastica ad aspettare che un tizio con cui ho parlato una volta sola in tutta la mia vita mi parli di nuovo e diventi mio amico. 

Ma poi…- Hey, posso sedermi qui oppure è occupato?- mi chiede Will con uno strano sorrisetto.

-Non c’era nemmeno bisogno di chiederlo.- rispondo. Per un attimo stiamo in silenzio entrambi.

-Tu…ti va di venire a casa mia dopo la scuola?- mi chiede.

Sto letteralmente esplodendo. Mi sarebbe venuta voglia di saltare su dalla sedia, ma ovviamente non l’ho fatto. Non è di certo una cosa da me. E poi sono così emozionata da sentire che sto avvampando.

Quindi gli rispondo di sì.


Ciani Viola 1C

A CAVALLO DELLA STORIA 


La cattedra con tutti quegli oggetti sconosciuti che ci ha mostrato la prof di scienze, noi alunni disposti su due tavoli mastodontici, seduti su degli sgabelli estendibili ai lati del tavolo. Suona la campanella.

L’ora è passata velocissima, mi fermo nel cortile a chiacchierare con alcuni dei miei amici. Mi viene un dubbio, non so se ho preso la borraccia, apro lo zaino e la cerco: non c’è!

Allora rientro in classe, da solo, vedo che è appoggiata sotto il banco… la prendo e alzo la testa. Cade un silenzio innaturale.

 Mi sento irrequieto, torno fuori da scuola, avverto una strana sensazione, sembra che la gente abbia cambiato i vestiti, ma ora che guardo bene sono cambiate anche le facce.

Un signore si ferma davanti a me. La prima cosa che mi viene da chiedere è: “Ma tu chi sei, scusa?” Allora mi risponde con un accento sconosciuto: “Per qual cagione siffatte vesti tu indossi, o messere?” 

Grazie al mio vasto lessico e alla conoscenza di una lingua affascinante come il volgare, capisco subito che non è una buona idea chiedere a un passante.

 Mi decido e vado in giro per la città.

Prima però penso che sia meglio segnare la posizione su Google Maps, tiro fuori il cellulare dalla tasca dello zaino, ma… Non si accende! Sottovoce bisbiglio: “Questo è un serio problema”.

Immagino allora che mi serva un orologio, arrivo in piazza, ma là in alto non c’è un orologio: c’è solo una specie di bastone in ferro appiccicato al campanile.

Per fortuna intuisco che è una meridiana, data la mia conoscenza della storia.

Voglio urlare.

“Ok. Sono circa le 14:45” dico tra me e me. In quel momento mi ricordo che non ho pranzato e mi viene un certo languorino, quindi decido subito di mangiare la merenda che mi ero procacciato al mattino.

Finito di mangiare, siccome ho ancora fame, vado a comprare un pezzo di pane.

Una volta arrivato dal fornaio, pago con 5 euro, ma il venditore mi sgrida dicendo: “Non baratto quella vile moneta, gentile guascone, qui si usa solo un soldo ch’è detto fiorino”.

Ringrazio, lascio il pane e esco dal negozio. Sono esterrefatto e incredulo, ma dopo quello che mi è successo sono quasi sicuro di essere stato teletrasportato nel 1300 d.C. 

Mi sento desolato e abbattuto, ma so che questa è una grande e unica opportunità e quindi la devo sfruttare al massimo! Penso: “Sì, è vero che non sono più a casa, ma tutto sommato, siccome a me piace la storia, essere qui non mi dispiace. Anche perché spero di esaudire un sogno, trovare una persona famosa, cioè Dante Alighieri. Quindi, se voglio incontrarlo sarà meglio darsi una mossa e correre a Firenze, dov’è nato e cresciuto. Purtroppo, non ho quella strana moneta chiamata fiorino e senza quella non vado da nessuna parte, di fatto non credo che arriverò mai a Firenze”.

Ma proprio in quel momento, sento uno strano verso, come un nitrito di un cavallo, anzi è davvero un nitrito di cavallo. Infatti, vedo un cavallo arrivare verso di me: in un primo momento penso che finalmente posso viaggiare, ma subito dopo mi ricordo che non so montare un cavallo… Decido comunque di fare una prova, ma all’istante cado dal cavallo!

Non mi do per vinto, decido di continuare a provare a cavalcarlo, e dopo quasi due ore riesco a salirci sopra e pian piano a partire. Passa un tempo che mi sembra infinito, arrivo a Firenze e cerco la via “Santa Margherita”, perché avevo studiato Dante con la prof. Gavioli e sapevo quindi tutto di lui, compreso dove abitava.

Sono emozionato, sento come se il desiderio più grande della mia vita si fosse appena realizzato, mi tremano le gambe e mi sudano le mani.

Busso alla porta.

Silenzio.

Dopo mezz’ora sono ancora qui che che busso, ormai demoralizzato, e inizia pure a piovere.

Aspetto ancora dieci minuti e poco dopo si apre la porta, faccio un salto dallo spavento, e sono così felice che quasi mi commuovo: davanti a me c’è Dante in persona!!

Lui subito mi accoglie con:

“Buongiorno giovincello,

Che fai qui senza ombrello?

Da dove arrivi così conciato,

Sei di qui o importato?

Tieni questo ti asciugherá,

Ma poi ridammelo qua!”

Incredibile: lui parla in un antico volgare, ma al mio orecchio le parole suonano in italiano corrente!

E intanto mi porge un asciugamano. “Vengo da Cento” rispondo io mentre mi asciugo con il panno.

Lui riprende:

“Bello è il numero cento,

di vederti sono assai contento”

Gli rispondo: “No, intendo Cento la città.” 

E lui:

“Scusami sono assai stolto,

Non conosco il luogo, oh giovine colto!

Ordunque basta cincischiare,

Inizierò le mie odi a recitare!”

Ma gli rispondo: “Tranquillo, sono già felice che sei qui, non serve che ti sforzi a trovare tutte quelle rime. E in più ho anche fame. Sai sono qui da tanto tempo, hai qualcosa da sgranocchiare?”

Lui mi fa:

“A trovar le rime non mi sforzo

Se vuoi ho del caffè d’orzo.

Anzi, scusami, se mi dici che hai tanta fame

ti offro cervo in un piatto di rame”.

“Va bene” rispondo io, entusiasta di passare un po’ di tempo con il mio eroe. 

Ma appena apro la porta…  subito cambia di nuovo tutto!!

È come se tutto fosse tornato al presente, mi ritrovo a Cento, non c’è più Dante… non che questo sia una brutta cosa, perché tutte quelle rime mi stavano facendo venire il mal di testa!!

Comunque quello era il mio sogno da sempre e sono contento di averlo vissuto. Avrei voluto dire e chiedere tante altre cose a Dante, ma ho avuto davvero poco tempo. Me ne farò una ragione.

Appena arrivo a casa racconto tutto a mia mamma e lei si mostra incredula, come mi aspettavo.

Vado sul letto, e ripenso a tutto ciò che era successo: rimarrà un sogno tutto mio.


Alfonsi Tommaso 1C

L’ARMADIETTO COLOR RUGGINE


Fuori ci sono dei gran nuvoloni grigi, sta piovendo da un’ora e mia mamma mi ha obbligata ad andare a scuola. Sono arrabbiata con lei perché non mi fa saltare mai un giorno di scuola e io ora devo attraversare le vie piene di fango, perché non mi può accompagnare in macchina. 

Eccomi qui, davanti a scuola. Tutti mi guardano, forse perché ho tutti i pantaloni inzuppati di fango e acqua o forse perché sto tremando dal freddo. Sto aspettando che aprano i cancelli così mi posso mettere al caldo vicino ai termosifoni della classe.

<<Hey Ivy.>>

Ecco Rachel, la mia migliore amica, che scende come tutti i giorni dalla macchina grigia di sua madre. Ha dei pantaloni oversize di un marroncino molto chiaro, con degli strappi e tante tasche. Sopra ha un maglione verde acqua che spunta da una giacca nera.

<<Ciao Rachi.>> la saluto, mentre si avvicina a me.

Sta arrivando Rosa la bidella ad aprire il cancello e intanto Rachel mi sta parlando del suo gatto BabooPenso che parli troppo e a volte quello che dice non è interessante, ma sa raccontare e scrivere storie molto bene.

Finalmente stiamo entrando in classe e già non tremo più. Sto attraversando il corridoio con i muri arancioni e tantissimi armadietti grigio chiaro.

Mi sono appena accorta che tra tutti gli armadietti, in un angolo vicino al bagno, ce n’è uno diverso da tutti gli altri: sembra molto vecchio, è pieno di ruggine ed è più grande rispetto agli altri. Sopra non c’è scritto il nome e sta chiuso senza il bisogno del lucchetto.

<<Ivy! Cosa stai guardando? Dobbiamo entrare in classe.>> mi rimprovera Rachel.

Ma appena faccio un passo qualcuno mi travolge facendomi cadere a terra.

<<Ehi!>> urlo.   

<<Scusa non ti ho vista.>> si scusa Oliver.

Oliver è il mio compagno di banco e anche il mio migliore amico. Si è vestito come al solito: occhiali tondi blu, camicia arancione e jeans chiari con cintura nera e dettagli dorati.

<<Oh, ciao Ivy.>> mi saluta mentre mi aiuta ad alzarmi.

Oliver è mio amico dalla prima elementare e ora siamo in seconda liceo, mi è sempre stato vicino. È simpatico e gentile, ha i capelli marroni con il ciuffo, occhi verde smeraldo e un naso piccolo.

<<Dobbiamo entrare in classe o la prof. ci sgriderà.>> mi dice, ma sono troppo concentrata a pensare a cosa ci sia dentro l’armadietto e perchè sia così diverso dagli altri.

Mi sono appena seduta e la prof. ha già incominciato a spiegare la lezione di scienze su Galileo Galilei e le sue invenzioni strabilianti, ma ecco che dalla porta entra un ragazzo con occhi e capelli marroni. È Jerry, un altro mio amico, l’ho conosciuto al liceo. Vestito con un felpa bianca con la scritta Nike e dei pantaloni stretti, aderenti alle gambe robuste.

Dopo la sua entrata le prime due ore sono passate velocemente.

 È ora della ricreazione, sono diretta in bagno per lavarmi le mani, e appena arrivo davanti alla porta del bagno rivedo l’armadietto color ruggine, è socchiuso e si intravede una luce rossa.

Ho deciso: vado dai miei amici e gli chiedo se vogliono venire con me a vedere cosa nasconde quel armadietto. Così mi dirigo verso di loro con il passo svelto perché tra poco finirà la ricreazione.

<<Ragazzi dovete IMMEDIATAMENTE venire a vedere una cosa.>> gli dico, mentre mi avvicino a loro. 

Siamo arrivati davanti l’armadietto e tutti mi guardano perché non capiscono perché ci siamo fermati lì. 

<<Cosa sarebbe?>>chiede Jerry.

<<Non vedete? Questo armadietto è diverso da tutti gli altri e si vede una lucina rossa, dobbiamo vedere cosa c’è dentro.>> gli spiego.

<<Ma così violeremmo le regole della scuola.>> protesta Rachel.

Ed ecco che Oliver e Jerry aprono l’armadietto senza dire niente, curiosi di cosa ci sia al suo interno.

<<Chiudete immediatamente!>> li rimprovera Rachel <<Se ci vedono rischiamo la sospensione.>>

Senza ascoltare io, Jerry e Oliver guardiamo al suo interno: una pietra rossa luccicante giace su un cuscino dorato e i bordi neri, per il resto è tutto buio e silenzioso.

Decidiamo di entrare, pur sapendo che è sbagliato. La prima ad entrare sono io, poi Jerry, Rachel e Oliver.

<<Usate qualcosa di pesante per tenere aperta la porta.>> consiglio, ma la porta si chiude.

Oliver cerca di aprirla con tutta la forza che ha, ma non riesce e a quel punto dice:

<<Siamo chiusi dentro.>> 

<<Bene!>> urla Rachel arrabbiata <<complimenti alle vostre stupide idee, ora rimarremo chiusi qua dentro.>>

Consiglio l’idea di urlare chiedendo aiuto, così lo facciamo, ma senza risultati. 

<<Forse la pietra è la via d’uscita>> dice Jerry <<è l’unica cosa che c’è qui dentro, quindi proviamo almeno ad avvicinarci.>>

Così ormai stanchi di urlare ci avviciniamo alla pietra, più ci avviciniamo più si illumina. Mi sono appena accorta che è a forma di chiave e che lì vicino, appoggiato sul cuscinetto c’è un biglietto con delle scritte. Lo prendo e leggo il contenuto ad alta voce:

<<Se tu uscir da qui vorrai,

la pietra rossa userai,

ma fai attenzione, sarai punibile,

per questo diventerai invisibile,

e nessuno più ti sentirà,

a meno che qualcuno non ti toccherà!>>

<<Quindi l’unica via di uscita è la pietra?>> chiede Rachel, con una voca seria.

<<Si, ma se la tocchiamo diventeremo invisibili.>> le spiego.

<<Quindi chi la toccherà?>> chiede Jerry, impaurito.

<<Se volete lo posso fare io, ma ricordatevi che mi dovete toccare subito dopo essere usciti.>> dice Rachel, ancora arrabbiata con me e i miei amici.

<<Ok.>> diciamo in coro io, Oliver e Jerry.

Dopo aver preso questa decisione, Rachel ha preso la pietra e sta cercando di aprire la porta. Ed ecco che quando esce non la vedo più. Ho paura e spero che tornerà visibile quando la toccheremo.

Usciamo tutti e iniziamo a sventolare le mani nell’intento di trovare Rachel.

Ed ecco che sento qualcosa di morbido sotto le mani… è il maglione di Rachel!

<<L’ho trovata!>> urlo felice.

<<Ma non dovrebbe tornare visibile?>> chiede Oliver.

<<Forse visto che eravamo insieme non funziona.>> dice Jerry.

<<Allora dovremmo aspettare che qualcuno la tocchi? Ma chissà quanto ci vorrà!>> dico.

Solo l’idea di non passare i pomeriggi con Rachel mi rende triste.

<<Ma per voi non c’è troppo silenzio?>> dice Oliver.

Così entriamo in varie aule e notiamo che non c’è nessuno, arrivati davanti ad un orologio da muro notiamo che segna le sei di sera.

<<Mi sa che il tempo passa più veloce dentro l’armadietto.>> dico <<Ora dobbiamo solo aspettare che qualcuno tocchi Rachel e che torni visibile, ci potrebbe mettere giorni, quindi dobbiamo essere pazienti. Ora andiamo a casa e diciamo ai nostri genitori che siamo stati in giro insieme. Se ci chiedono di Rachel dobbiamo dire che non era con noi e che non la vediamo da oggi a scuola.>>


3 settimane dopo…


Sto andando a scuola e c’è il sole, sono ancora triste per Rachel mi manca molto.

 Entriamo in classe e ad un certo punto dalla porta entra una ragazza…Rachel! Io e i miei amici corriamo ad abbracciarla piangendo dalla felicità. Finalmente è tornata!

Cristofori Lisa 1A

“L’amico”                                                      

E fu in una semplicissima giornata d’estate che cominciarono tutti i momenti brutti, che a volte furono così orripilanti da farlo piangere, e una malattia che gli causò malinconia e morte.

“Lorenzo, vieni subito giù!” gridò la madre dalla cucina.

“Sì mamma, arrivo” disse Lorenzo sbuffando dal letto.

Lorenzo, stanco e svogliato, sì alzò dal letto e sì vestì velocemente, attratto da un buon odore proveniente dalla cucina, allora, dopo essere sceso, chiese spontaneamente alla madre:

“Cosa mi hai fatto per colazione?”

“Ti ho fatto due pancake” rispose la madre.

Lorenzo ama i pancake per due motivi: uno, hanno un odore molto invitante, e due, perché sono molto buoni, soprattutto quelli di sua madre.

Appena la madre vide che Lorenzo aveva finito di fare colazione gli disse: “Dai Lorenzo, andiamo che è ora!”

Lorenzo e sua madre andarono in macchina, e, dopo un lungo viaggio arrivarono finalmente in un posto rozzo, vecchio ed antigienico di nome ospedale, per fare una visita medica.

Aspettò molto per la lunga fila, fino a quando lo chiamarono, e lui felicemente esclamò: “URRA’!”

E, dopo aver aspettato altri 20 minuti di tensione e noia per farsi sicuramente dire che stava bene, arrivò la dottoressa, che, con espressione sconsolata gli disse: “Mi dispiace signora, non sappiamo come sia possibile, ma suo figlio ha una malattia al cervello mortale che a noi è ignota”.

“E…quanti anni di vita ha ancora?” chiese la madre disperata.

“A quanto pare signora, suo figlio ha ancora una settimana di vita”.                                                

La madre, disperata e piangendo abbracciò il figlio come se quella fosse l’ultima volta che l’avrebbe  visto; al contrario del figlio, che era inaspettatamente  felice. I motivi della sua gioia erano due. 

Il primo era che i suoi genitori li odiava, perché con lui erano molto severi, tiravano botte, offendevano  con le parole, e, la cosa peggiore  è che a volte non lo facevano o pranzare o cenare.

Il secondo motivo era che ormai non aveva più amici dopo quel giorno, perché lui lo disse ad ogni persona che conosceva, ed ogni persona tra cui amici e persino la sua fidanzata Emma lo lasciarono da solo, in un “buco” molto ampio e vasto di cui il tappo per chiuderlo se n’era andato, come tutte le persone a lui care, e la motivazione è che per tutti era uno stregone, cosa che a che a noi è spaventosa.

E fu da una semplicissima giornata d’estate che la vita di un ragazzo si spezzò come il suo cuore, causandogli  anche una malinconia fitta, come un’ancora impiantata nel terreno, che è irremovibile se non con l’aiuto di qualcuno, qualcuno che Lorenzo non aveva.

Le sue giornate erano praticamente uguali:

-si svegliava;

-faceva colazione;

-andava al parco giochi (a volte);

-pranzava;

-giocava;

-cenava;

-piangeva;

-andava a letto.

Ogni giorno che passava Lorenzo era sempre più felice perché non vedeva l’ora di porre fine alle sue sofferenze: a una vita brutta, piena di rimpianti e soprattutto troppo rapida .

Finalmente, arrivò il giorno più atteso da Lorenzo, il giorno in cui tutte le sofferenze sarebbero finite. Lorenzo, felicissimo insieme alla madre, andò in ospedale, nonché il suo ultimo luogo da vedere, sdraiato in un lettino, con la madre che lo abbracciò con tutte le forze del suo corpo. 

Se ne stava lì In un lettino lercio, bagnato e instabile: un povero ragazzo con occhi azzurri cielo, capelli marroni scuro, alto un metro e mezzo, bravissimo in quasi tutte le materie e soprattutto pensieroso su cose scientificamente impossibili. Infatti, pensava e sperava di andare all’inferno, perché per lui è un posto bello dove si conosce la verità del perché esistiamo per soffrire, per stare male e per morire.

Forse ti starai domandando chi io sia…beh ecco, io sono una persona che non ha aiutato Lorenzo nei momenti bui, una persona tra tante che gli ha fatto venire quella bruttissima malinconia, una persona che non ha fatto niente per far vivere al meglio gli ultimi giorni di vita di una persona sfortunata, una persona che si ritiene amico di Lorenzo anche se gli ha fatto tutte queste cose bruttissime. E mi pento molto, moltissimo delle mie azioni. 

Posso dire però che, come minimo, sono andato a visitarlo per i suoi ultimi minuti o secondi di vita a dirgli quello che aveva fatto di sbagliato e quanto mi dispiaceva. Dopo avergli confessato  tutto lui mi disse: “Mi piace molto che gli ultimi momenti di vita li abbia passati con te, grazie di tutto amico mio”.

Queste furono le ultime parole di Lorenzo prima di morire. Era particolarmente felice, si notava dalla sua espressione sorridente, mentre tutti gli altri, tra cui io, cademmo a terra a piangere.

Saltari Andrea 1C